Una transizione complicata e rallentata, quella del sistema televisivo italiano verso il nuovo standard DVBT2. Che doveva portare ad offerte in 4k-UHD anche sul digitale terrestre, qualità riservata per oggi al satellite, che ha banda da vendere, e ai contenuti in streaming, purchè tecnologicamente adeguati. Il 20 dicembre, su decisione dei principali editori televisivi, intanto, sarà chiuso lo standard di codifica Mpeg2, quello con cui è nato e si è sviluppato il digitale terrestre.
Tutti i canali saranno trasmessi con standard di codifica Mpeg4 e in HD, ma ancora in DVBT. Le famiglie che, ad oggi, non sono i grado di ricevere i canali HD sono stimati tra 500mila e il milione da Confindustria Radio Tv,.mentre sarebbero 1,5-2 milioni di apparecchi a non ricevere i canali in HD secondo Anitec, l’associazione dei principali produttori di apparecchi (una parte sono secondi o terzi televisori).
Su 45 milioni di apparecchi televisivi presenti nelle case italiane, 15 milioni sono quelli connessi alla Rete per ricevere le app della tv in streaming (fonte: ANITEC all’ultimo HD Forum di Roma). Non così tanti, colpa anche della scarsa qualità delle connessioni. e del WIFI in particolare, offerte dagli operatori telefonici al di fuori delle grandi città. La tv in streaming, insomma, ha ancora grandi margini di crescita. Quanto al DVBT2, per Confindustria Radio Tv, il 30% dei televisori non è in grado di ricevere il nuovo standard. Secondo Anitec sono circa 25 milioni su 45 gli apparecchi o da sostituire o da integrare con un decoder DVBT2. Si vendono più o meno cinque milioni di apparecchi tv ogni anno, incentivi compresi (a meno di non avere incentivi all’acquisto più consistenti, ovviamente).
La notizia è che per adesso, infatti, NON si passerà al nuovo standard. Confindustria Radio Tv, con il suo presidente Franco Siddi, confermato sino al dicembre 2024, lo ha detto chiaro e tondo all’HD Forum di Roma. L’unica transizione, per adesso, sarà quella al Mpeg4. Alcune norme prevedevano un passaggio al T2 nel gennaio 2023, ma non se ne farà niente. Ricordiamo che l’attuale Piano di assegnazione delle frequenze 2018, quello definitivo, è un Piano DVBT2. Per questo, ad esempio, nella Finanziaria di fine 2018 si ridussero da quattro ad uno i multiplex previsti (nel Piano 2017) per le tv locali ad un solo multiplex per regione. In modo da poter così aumentare i multiplex delle emittenti nazionali da 10 a 12 e permettere alla Rai di fare il multiplex decomponibile per regioni in banda UHF e non in banda VHF, com’era previsto nel Piano frequenze del 2017. E adesso le tv locali, tutte tecnicamente pronte a trasmettere in T2, non hanno la banda disponibile per farlo, dopo aver dovuto rottamare le frequenze su cui trasmettevano. Al contrario delle tv nazionali, i cui operatori di rete, invece, RaiWay e EI Towers, hanno vinto la gara per ospitare, a pagamento, anche i fornitori di contenuti locali. Si dice che si sia superata l’integrazione verticale tra editori di contenuti e gestori di torri e di multiplex, ma RaiWay è ancora in maggioranza della Rai e su EI Towers bisognerebbe analizzare qual è il “peso” effettivo del socio di minoranza Mediaset e del suo know how rispetto a Cassa Depositi e Prestiti. Resta aperta la partita per avere il polo unico nazionale delle torri, con ogni probabilità a maggioranza pubblica. Quanto vorrà Mediaset per cedere la sua quota?
Certo, si è liberata la banda 700 per la mobilità via Internet, ma il gioco e le sue regole stanno cambiando: diversi settori industriali ambiscono a quelle frequenze, fino ad ora riservate agli operatori Tlc per la mobilità. Si pensi all’auto e alla robotica o all’Internet delle cose, in attesa del Metaverso. Questo mentre gli operatori telefonici non sono in grande salute finanziaria e chiedono l’aiuto del Governo per completare le reti in 5G. In più TIM è imprigionata nella trappola politico finanziaria della Rete Unica e del suo stesso destino come azienda (quello di Open Fiber è segnato?). Difficile, quindi, che abbiano voglia e risorse per un’altra gara sulle frequenze rimaste ancora in uso alle televisioni. A Ginevra 2023, tra un anno, alla Conferenza dell’ITU, si deciderà cosa fare di quelle frequenze ma Italia, Francia, Spagna, Grecia e forse UK chiederanno di lasciarle in uso alle televisioni sino al 2031. Uno dei motivi è quello di non far crollare il valore delle torri e delle reti di trasmissione su quelle frequenze. Se questa sarà la decisione finale, si moltiplicheranno le attuali soluzioni ibride tra le tecnologie televisive e quelle della IP TV, per offrire contenuti in 4k a tutte le piattaforme e a tutti gli schermi. O a quasi tutti. Per il 4K sulla piattaforma digitale terrestre sono pronte o in uso diverse tecnologie ibride, tra il broadcast e il broadband, ma occorre fare attenzione ai sistemi operativi di ogni apparecchio tv, per poterle ricevere con la piena qualità.
Il problema della politica e dei regolatori è quello di difendere l’attuale assetto del sistema televisivo, che è il prodotto di una storia mai raccontata fino in fondo, mentre una parte crescente del pubblico ha a disposizione un numero crescente di schermi e di piattaforme che offrono contenuti non realizzati (e spesso non realizzabili) dalle emittenti nazionali. Anni fa la tv pubblica francese propose una Netflix europea ma la cosa non riusci a decollare. Tra gli schermi vi sono quelli televisivi, a mano a mano che si sostituiscono quelli in uso con gli SmartTv. Da qui la guerra della prominence lanciata dagli editori televisivi rispetto agli accordi tra produttori di tv, Samsung in testa, e i colossi dello streaming, Netflix in testa per sistemi operativi e telecomandi che offrono l’accesso immediato a determinati servizi a pagamento (e presto, a pagamento ridotto ma con la pubblicità, in competizione diretta con gli editori televisivi). E che in alcuni casi non hanno i numeri da 1 a 9 sul telecomando per trovare i canali digitali terrestri.
Gli editori televisivi hanno il merito di finanziare la produzione audiovisiva nazionale, a parte il giudizio su programmi e contenuti della tv generalista, dato che in Italia non si può certo importare il modello coreano: Non abbiamo più un’industria dell’elettronica di consumo, grazie alla scelta di ritardare l’introduzione della tv a colori. Non abbiamo una Samsung che concorre a finanziare film e fiction coreani. Così come non abbiamo reti via cavo grazie alla norma della riforma Rai del 1975 che legittimava solo il cavo “monocanale”, per salvare il monopolio di Sip e Rai. Da lì è iniziata la storia mai raccontata del sistema televisivo italiano. Che ora rischia di finire, come Pinocchio e Geppetto, in bocca alla Moby Dick di Internet e dello streaming.
P.S. Scusate se cito il mio intervento all’HD Forum ma resta aperto un problema che pochi hanno presente: quando l’immagine sarà in 4k, e poi, in 8k, qualsiasi genere televisivo dovrà essere pensato, scritto, realizzato e ripreso in modo diverso da come avviene oggi. Meno primi piani, più campi medi e lunghi. Un ritorno al vecchio caro cinema. Il linguaggio dell’informazione tv dovrà tener conto della visione di dettagli finora descritti a parole. Le azienda televisive si stanno riorganizzando per tener conto dei nuovi formati delle immagini e degli schermi riceventi?