Esterno notte di Marco Bellocchio è una serie che affronta il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Sei episodi che sono usciti in due parti al cinema e poi sono stati proposti al pubblico della televisione generalista in tre serate (lunedì, martedì e giovedì della stessa settimana) sui Rai1.
Gli ascolti hanno oscillato tra il 18 e il 15%, gli spettatori hanno di poco superato i tre milioni. Chi lo ha considerato un risultato deludente per l’evento annunciato della fiction Rai della nuova stagione, chi ha sottolineato al contrario la doverosa collocazione nella prima serata di Rai1 e l’entità del pubblico comunque coinvolto. Chi ha attaccato la serie per la inadeguata ricostruzione storica 1 e ha parlato di “occasione persa”, chi l’ha difesa come l’opera di un maestro del cinema e della sua immaginazione d’autore, e in ogni caso una testimonianza.
Allora, nella consapevolezza che ognuno è padrone dei propri giudizi e nessuno ha la chiave, è forse utile fare qualche ragionamento che a partire dalle polemiche allarghi il quadro a quello che Esterno notte dice della fiction – e, in questo caso, di quella del servizio pubblico – del racconto tra cinema e tv e del rapporto con la memoria storica di un Paese. Alcuni aspetti su cui ragionare s’impongono in un’evidenza che però è anche il problema di se stessa: “Una serie di Marco Bellocchio”, annunciano i titoli, la serie di un autore tra i più significativi del cinema italiano a partire dagli anni Sessanta, che si confronta per la prima volta con un formato seriale; – un lavoro che viene presentato in un Festival come quello di Cannes che è un tempio della cinematografia, per poi passare per le sale e infine arrivare nella tradizionale televisione; un tema – il rapimento, la detenzione e l’assassinio di Moro – che nella storia italiana del dopoguerra costituisce un vulnus drammatico, tuttora con aspetti irrisolti, ombre inquietanti e un conto aperto del Paese con la memoria e l’accaduto di quegli anni.
Aspetti diversi e tutt’altro che inediti ma che la compresenza rende significativi di questioni più generali che riguardano il rapporto tra cinema e fiction, la qualità – concetto spesso sfuggente… – della fiction del servizio pubblico e la relazione tra la fiction, la realtà e la memoria.
Cominciamo da Bellocchio. Sappiamo la densità longeva della sua cinematografia, un lungo racconto che comincia nel 1965 con la ribellione-rivelazione de I pugni in tasca, un oggetto contundente nel panorama del cinema italiano di allora, con temi/ossessioni che torneranno, personaggi fuori di chiave, il cerchio chiuso della famiglia edell’intrigo condizionante e contraddittorio dei rapporti, l’educazione cattolica e gli echi di una contestazione critica che oscilla tra una lettura marxista della società e lo scandaglio psicoanalitico.
Sono costanti che Bellocchio riarticola nel corso della sua lunga riflessione- cinema, in cui questi temi-ossessione tornano quasi si trattasse di una coazione a ripetere di cui il cinema finisce forse per essere un terapeutico lettino d’autoanalisi, fino a Il Traditore/Tommaso Buscetta (2019) e al confessionale familiare allestito in Marx può aspettare (2021), in cui il regista si confronta con il fantasma di Camillo, il fratello gemello che si suicidò nel 1968, e vi rilegge in controluce tutto il suo cinema.
Naturalmente quella che chiamiamo riflessione si dà nell’originalità di un linguaggio in cui il realismo delle immagini si sposta ininterrottamente su una dimensione “altra” che rimanda all’inconscio e dunque anche a una sorta di oniricità che genera un’astrazione del “racconto”, fatta anche di dettagli e controcanti che più che all’ironia possono attingere al surreale e perfino al grottesco. In tutto questo, ci sta anche che Bellocchio abbia già affrontato il caso Moro. Lo ha fatto in Buongiorno, notte, tratto nel 2003 da Il prigioniero di Anna Laura Braghetti. Punto di vista – lo sguardo contestualizza il film – di una brigatista, la realtà che scivola nel sogno, il cinema che diventa più forte della stessa realtà e immagina il Presidente della DC libero…
Dunque, Moro nel suo essere vittima di un atto terroristico è un fantasma che torna e chiede ancora di essere visitato. Per questo ritorno Bellocchio sceglie un formato per lui inedito: un racconto seriale che rappresenta l’occasione per un confronto con un tempo narrativo diverso dalla misura cinematografica, che in questo caso si dà in una divisione in 6 episodi e tre serate che obbligano a dare alla narrazione una struttura adeguata. Cosa fa allora Bellocchio? Sceglie un racconto che non segue una linearità ma frammenta e moltiplica, nel senso che dopo un primo episodio dedicato al rapimento si susseguono quattro punti di vista sull’accadimento – sarebbe meglio dire che lo sguardo di Bellocchio si moltiplica per quattro – e cioè il modo in cui la vicenda è stato vissuta dal ministro degli interni Francesco Cossiga, dal Papa Paolo VI, dalla terrorista Adriana Faranda e dalla moglie di Moro, Eleonora, per poi chiudere con l’uccisione dell’ostaggio.
Come se di volta in volta, ci trovassimo di fronte a quattro atti che avendo lo stesso evento di riferimento, si concentrano sul vissuto emotivo di altrettante personalità, che si succedono non secondo una progressione, ma semmai con una successione, come i vagoni di un treno. Questa scelta fa tutt’uno con un linguaggio che dall’Esterno va all’interno e mette in scena il conflitto coscienziale che attraversa ciascuno dei quattro. Con un andamento in cui non solo entra la dimensione onirica, ma tutto il percorso
finisce per essere spostato di grado, secondo la vocazione propria di Bellocchio che è tutto meno che un regista d’impegno, nel senso di quella tradizione del cinema italiano che va da Francesco Rosi a Damiano Damiani a Giuseppe Ferrara (con tutti i distinguo e nella semplificazione di una categoria di genere).
Al punto che viene da chiedersi se i quattro stati d’animo rappresentati, questo interiore che diventa esteriore, non siano proiezioni di una visione che non riuscendo a ricomporsi si dà nella compresenza diversificata di quattro esperienze soggettive. Ritratte, è il caso di sottolinearlo, con un’astrazione che può arrivare all’espressionismo o a un controcanto perfino surreale e ironico.
Una scelta legittima che oggettivamente si trova di fronte al Caso Moro, non quello raccontato nei modi accennati, ma quello che si è depositato nella memoria del Paese. Inevitabile appuntamento con una galassia tormentata e irrisolta, fra retaggio storico e opinione diffusa in cui ci stanno il terrorismo degli anni Settanta, le Brigate Rosse la cui strategia va a culminare in un rapimento e un assassinio avendo a monte un groviglio di responsabilità, dirette, infiltrate, parallele, depistanti, tuttora in parte avvolte nell’oscurità, che a loro volta mettono in gioco il sistema del potere di quel tempo imperniato sulla Democrazia Cristiana, con il Partito Comunista che proprio Moro va a sdoganare con un governo Andreotti che ha l’appoggio esterno di Botteghe Oscure, e il Partito Socialista che è l’unico a opporsi al “partito della fermezza”. Per non dire del Vaticano e del Papa Paolo VI, e della collocazione italiana nel quadro geopolitico della Guerra Fredda. Insomma, il caso si presenta oggi come un prisma sfuggente in cui Moro è diventato il fantasma plurale e insieme stereotipato di se stesso: – il lungimirante politico che squaderna le convenzioni della politica italiana e sfida equilibri imposti dalla contrapposizione Est/Ovest; – il nemico di classe che porta il maggiore partito della sinistra nell’area di governo, e addio a quella Rivoluzione che in quegli anni l’eversione BR persegue salvo constatare che – la vicenda Moro ne è la dimostrazione definitiva – la saldatura con la classe operaia e un movimento di popolo non c’è stata; – la vittima di una realpolitik cinica che lo destituisce di ogni dignità e nega ogni attendibilità alle lettere scritte durante la prigionìa.
Moro oggi è ancora lì, come un Convitato di pietra della politica e della storia italiana. Presente e rimosso, perché non c’è stata una visione che sia stata capace di rileggere le contraddizioni di quegli anni, di darne ragione anche con un giudizio storico che è tale quando non giustifica, ma nella distanza ricomprende e in questo senso si riproietta sull’attualità. Perché? Perché – senza troppo scomodare le dietrologie, ci sono poteri che non possono dire tutta la verità, perché ci sono le famiglie delle vittime – tante – che chiedono giustizia e appunto verità, così come Brigatisti che si sono pentiti e altri che invece non si sono dissociati e continuano a scontare le pene erogate, in un silenzio che lascia tanti spazi bianchi su quei 55 giorni del 1978. Inevitabile dunque che raccontare la vicenda di Aldo Moro vada a inciampare di per sé su questa realtà. E così, se vale la libertà e l’autonomia di un regista, è fatale che ciò che propone si vada a confrontare con vissuti reali e con l’ambiguità dell’irrisolta memoria che quell’accadimento porta con sé.
Potremmo anche dire che questo è il sale vivo di una democrazia in cui non si ha paura del dibattito e della forza provocatoria della cultura, e che approfitta di questa per fare un esame troppo a lungo rinviato. E su questo però non si può non notare come la messa in onda di Esterno notte abbia sì innescato polemiche, ma abbia scontato – al di là delle considerazioni estetiche – un doppio limite. Sia in quanto scelta d’autore, sia come serie che si colloca nel palinsesto televisivo di un broadcaster generalista, oltre che di servizio pubblico.
Andiamo in ordine. Nemmeno si discute sul fatto che il servizio pubblico abbia tutto il diritto e il dovere di affrontare una vicenda così importante nel cammino del Paese dal dopoguerra. Ha raccontato con la fiction Adriano Olivetti, Marco Pannella, Nilde Iotti e si è già confrontato nel 2018 con la figura di Moro in un tv movie/docufiction di Gianfranco Micciché – Aldo Moro – Il Professore – centrato sul rapporto con gli studenti e la rievocazione dei 55 giorni del rapimento con le ambiguità che lo circondano e la solitudine in cui si viene a trovare il Presidente della DC.
Quella di Bellocchio è una scelta autorale forte e coraggiosa. Lui la interpreta da Bellocchio e si sposta dal formato cinema alla serie. Cosa che non rappresenta un’eccezione, siamo in un periodo in cui le barriere tradizionali che hanno separato cinema e tv cadono anche da noi. In America la seconda Golden Age è cominciata più di trent’anni fa con Twin Peaks (due stagioni, 1990/91) firmato da un iper-autore come David Lynch e dal producer tv Mark Frost, uno che ha alle spalle Hill Street giorno e notte/Hill Street Blues (1982/85) e cioè una serie che ha creato il modello della serie serializzata, un commissariato, l’incastro delle vicende professionali e private dei poliziotti e i casi da risolvere in ciascuna puntata. Da lì una linea che ha visto crescere esponenzialmente il credito qualitativo della serialità – sostanzialmente americana, ma ci sono anche esempi europei da BBC alla Germania, dalla Spagna ai paesi scandinavi all’Italia – nei confronti del cinema, fino a un successo e a una lettura critica che ha addirittura sostenuto che l’immaginario dal linguaggio più ricco, profondo e creativo non stia più nella sala buia, ma nel piccolo schermo.
Oggi, siamo a un andirivieni di registi, attori, scrittori e professionalità tra i due ambiti. Succede anche in Italia e la serie di Bellocchio rientra anche in questa linea di tendenza. Con alcuni distinguo non di poco conto. Intanto, Bellocchio non fa un’operazione di fiction/fiction, non s’inventa il mondo border e allucinato di Twin Peaks, non la fanta-politica di House of Cards (sei stagioni, 2013/18) non prende un caso di cronaca/serial killer alla Damer (su Netflix quest’anno, non lancia sottili esche narrative a uno spettatore smaliziato, no, va a mettere in scena il caso politico più drammatico della storia repubblicana italiana.
Si potrebbe osservare che anche altri fatti drammatici della nostra storia sono diventati serie, la criminalità romana e Romanzo criminale (due stagioni, 2008/10), la camorra e Gomorra (cinque stagioni, 2014/21), Mani Pulite e 1992 (2015), nessuna però con l’impatto del caso Moro e tutte proposte su reti pay. In quei casi, le polemiche riguardarono più il modo di rappresentare delle realtà criminali, o le semplificazioni narrative e spettacolari della fiction rispetto alla complessità dei fatti.
Anche la Rai ha dei precedenti importanti: il docu-reality Processo per stupro (1979) sul delitto del Circeo e la fiction/fiction La Piovra che per la prima volta affrontava in tv il problema della mafia e del rapporto con lo Stato, dieci miniserie con polemiche aspre che alla fine ne sterilizzarono la produzione. Tutto questo per dire del rapporto tra televisione e cronaca/storia politica e criminale in Italia, peraltro in epoche e in contesti mediatici molto diversi. Dunque, Bellocchio non arriva certo per primo e, in ogni caso, ha tutta la libertà di occuparsi di Moro, ma deve scontare delle conseguenze che non attengono
alla sua libera ispirazione ma al cammino mediatico e all’impatto di una serie dedicata con la sua cifra di regista a quella vicenda. Bellocchio, infatti, fa sì un passo coraggioso verso la serialità ma continua a
pensarla tutta dentro un linguaggio cinematografico, che del cinema ha la durata e la dilatazione, quello scarto “onirico” di cui abbiamo detto e che è consustanziale alla sua scrittura con le immagini. E questa “natura” cinematografica è confermata dalla sua volontà di presentare Esterno notte a Cannes e farla uscire – nella sua interezza divisa in due parti – nelle sale cinematografiche, prima di arrivare in televisione. Come a dire che lì, nel buio della sala, sta il luogo privilegiato della visione, perché è lì che si creano l’atmosfera e l’intensità per partecipare pienamente alla profondità dell’esperienza che quel cinema in sei episodi propone. Così, la la serie arriva nel luogo deputato per cui è stata prodotta e realizzata come se fosse una destinazione “residuale” e vi si mostra con una forza e un limite.
La forza di una visione d’autore – che certo si può discutere, criticare e rifiutare – e un limite che discende per un verso proprio da quella, per l’altro dall’inserimento oggettivo nel flusso della programmazione, nella vetrina del prime time della rete più generalista della Rai. C’è chi ha sostenuto che Esterno notte avrebbe dovuto essere accompagnato da un contesto di informazione-approfondimento che desse al pubblico strumenti per leggere e orientarsi in una vicenda da cui ci separa quasi mezzo secolo. Vi si parla di DC e PCI, di personalità che molti non conoscono o di cui hanno sentito vagamente parlare, Paolo VI, Cossiga, Andreotti, Zaccagnini, Morucci, Faranda.., figure e mondi politici lontani. Tanto più per un caso che non ha una verità acclarata e definitiva ma resta avvolto in nebbie inquietanti sugli strati di responsabilità che vi si sovrappongono e confondono. Un “aiuto” per avvicinarsi a un’operazione di linguaggio di secondo grado che nasce dal desiderio/ossessione di un autore di confrontarsi con il fantasma- Moro e dunque, come detto, sposta, estremizza, gioca sul bordo tra realtà e immaginazione, e – lungi dall’andare nella direzione dell’inchiesta – restituisce la figura di Moro assimilato a un Cristo-vittima condannato e abbandonato dal partito che fu suo. È un discorso delicato che va a toccare la missione stessa del servizio pubblico e comporta anche una riflessione sul pubblico. Comporta il rischio di recuperare impostazioni pedagogiche da epoca del monopolio e però ricorda che il rapporto tra testo e contesto è intrinseco al palinsesto generalista ed è al tempo stesso una leva potente che consente di agire sulla programmazione e sul modo di collocare i prodotti, nel tempo in cui la tv non è più una piazza ecumenica e anche gli appuntamenti non scattano più per inerzia e per la scarsità dell’offerta. Dunque, Esterno notte mi pare vada preso come un esperimento. Indica una strada d’autore che può essere strategica per la fiction italiana e spingerla a mettere alla prova talenti ancor più di quanto non sia stato fatto (con Matteo Garrone, Marco Tullio Giordana, Alessandro D’Alatri, Edoardo De Angelis, Daniele Luchetti, Alice Rohrwacher, Marcio Pontecorvo, Paolo Sorrentino…) e però segnala anche un guado in divenire ambiguo come tutti gli attraversamenti.
Insomma, indica una strada e, al tempo stesso, segnala una soglia su cui si toccano cinema e televisione, autorialità (quale?) e industria seriale, il consumo tradizionalmente generalista e il watching su piattaforma, la residualità/universalità generalista e le piattaforme, lo statuto della memoria e il tempo tutto al presente delle “non cose”. E, in ogni caso, ha il merito provocatorio di richiamare l’attenzione su un nodo fondamentale della comunicazione nel nostro tempo, sottoposta all’usura quotidiana della quantità-flusso, a una metonimia derealizzante che non deposita e schiaccia tutto sul qui-e-ora. Traiettorie individuali di consumo e di interattività si svolgono come schegge o tangenti, non si ricompongono e si appagano del movimento in quanto tale.
La memoria? Sappiamo quanto non coincida solo con ciò che va ricordato – nella contesa con l’oblìo che da sempre la costituisce – ma con la percezione psico-antropologica che ci mette nella durata di una Storia che continua nel presente. Ebbene Esterno notte è rimasta, incerta, tra l’attualità vorace della
televisione, il sogno cinematografico, e la Storia che resta lì, con i cadaveri (Cfr. la sociofilosofia al tempo di Internet di Byung-chul Han in Le non cose, Einaudi ,2022) inconciliati, le utopie delle ideologie, il cinismo della realpolitik, il mistero della borsa che Moro aveva il giorno in cui fu rapito, i covi non perquisiti, i compagni che erano compagni e quelli che lo erano…
Mi resta un’immagine. Una sorta di logo messo prima delle interruzioni per la pubblicità. Dallo spioncino della porta della cella in cui lo hanno recluso, Moro ci guarda per un momento. Incerto, fragile, disincantato.
Poi, arrivano gli spot.
Guido Barlozzetti
- Esterno notte, perché senza il contesto politico l’uccisione di Moro è pura metafisica (David Romoli, il Riformista), La fiction su Moro: un’occasione mancata per la Rai e un danno irreparabile alla verità storica (Michele Anzaldi HuffPost Italia), Esterno notte, Maria Fida Moro contro la serie di Marco Bellocchio: “Si rispetti la storia o ci lascino in pace” (la Repubblica)…
- Esterno notte: Serie tv o film “a mosaico”, è comunque un capolavoro (Maurizio Ermisino su
Movieplayer), Esterno notte è un grande film, lo sguardo di Bellocchio resta unico (Angela Azzaro, il
Riformista), Esterno notte, il rigore di Marco Bellocchio sul caso Moro (Aldo Grasso sul Corriere della
Sera) e ancora Esterno notte di Marco Bellocchio: “Non si possono fare inutili polemiche contro i
fantasmi” (Aldo Grasso sul Corriere della Sera)…
Il guado del cinema (non solo) italiano
Le previsioni dicono che saranno 45 milioni gli spettatori che alla fine di quest’anno saranno entrati in una sala cinematografica. Meno della metà di quanti erano prima della pandemia.
Il virus ha fatto tabula quasi rasa, ha rinchiuso nelle case, ha esposto alla televisione, ha fatto decollare le piattaforme e il consumo domestico di film e (soprattutto) serie. Il virus, certo, ha colpito e shakerato ma sarebbe sbagliato caricarlo di responsabilità totalizzanti, il cambiamento era già in atto, con una gradualità che nell’emergenza ha subito un’accelerazione.
Questo, in ogni caso, è il quadro, immediato e evidente. Racconta di un mutamento profondo in atto che potrà anche riequilibrarsi nel tempo rispetto al “prima”, ma rispetto al quale non si tornerà indietro.
Inutile la nostalgia, non si riavvolgerà il nastro perché è comunque cambiato il sistema dei rapporti nel nuovo campo dell’audiovisivo, dove cinema e fiction sono componenti ormai di un mercato – che lo si voglia o no – integrato che va riorganizzandosi e propone sfide nuove e per certi veri ancora imprevedibili.
Ecco il punto decisivo: guai guardare il cambiamento da un punto di vista difensivo e di retroguardia lamentosa, things change e obbligano a pensare diversamente, a non riproporre routines spiazzate e anacronistiche, e a presidiare il proprio orto, ma a cogliere le nuove opportunità che si offrono, a guardare nel guado e a provare percorsi che, consapevoli della corrente, avvicinino all’altra sponda. Sapendo che continuerà a sportarsi e che il mutamento non sarà un alibi per chi non si attrezzerà per starci dentro e affrontarlo.
Il che non vuol dire assecondare passivamente il divenire del mercato, ma attivare al nuovo livello quella che è sempre stato il confronto tra le componenti: la creatività, il talento, il mercato, il pubblico.
È appena uscita un’appassionante storia del cinema americano scritta da un critico illustre e sulfureo, David Thomson, si intitola alla “formula perfetta” che Hollywood ha sempre inseguito e ne rivela il gioco di coraggio e nefandezze, manovre e stratagemmi, caso e necessità. La verità è che siamo sempre in un orizzonte aperto, oggi più che mai, ai partecipanti al gioco entrarvi con coraggio, lungimiranza, responsabilità e la capacità di assumersi il rischio, oggi più che mai, perché non basta ripetere quello che ha avuto successo e occorre aprirsi alla pluralità, alle differenze, alla originalità dei punti di vista, scendere in campo aperto e competere.
E allora se questa storia la guardiamo (solo) dall’osservatorio del cinema commettiamo un errore di prospettiva. L’aveva intuito Godard quando parlava di “quella parte di cinema chiamata televisione”, anche se per lui il cambiamento era un motivo in più per impadronirsene e piegarlo alla libertà dell’autore.
Fatica il cinema italiano, di questo stiamo parlando, a mettersi in condizione di affrontare il nuovo scenario, ancor più perché non si può chiamare fuori, ma ci sta dentro, con tutte le conseguenze del caso, anche gli strabismi che impediscono di vedere e di vedersi.
I produttori. Fanno film e fiction, producono centinaia di film all’anno di cui molti non approdano alle sale, troppo spesso garantiti a monte dai finanziamenti (quelli pubblici i cui meccanismi nel nuovo contesto andrebbero profondamente rivisti) e finiscono per sperare nei passaggi televisivi, bypassando le sale. Un paradosso, tanti, tantissimi film che rischiano di non essere visti, anche se poi c’è chi ricorda che la quantità per la dialettica engelsiana dovrebbe essere la condizione per far germinare la qualità.
Una volta c’erano il cinema d’autore e il cinema cosiddetto medio presi in un circolo virtuoso, oggi il cinema d’autore sembra resistere più di quel livello che dovrebbe essere popolare e generalista che, intanto, è stato risucchiato dalla fiction della televisione, mentre il pubblico più esigente orienta il gusto sulla serialità della ormai terza o quarta Golden Age e fatica a ritrovarla nel cinema, tanto meno nella sala buia.
Già, la sala buia, mito a rischio di residualità. I numeri sono quelli che sono, distributori e esercenti sono ormai sul bordo della sopravvivenza e devono decidere se mollare o aspettare che passi la nottata, ma intanto – nelle comprensibili difficoltà – farebbero bene a guardare la larghezza dello scenario e a pensarsi come una parte – non più decisiva – esattamente come la sala buia.
Nessuno ha la ricetta pronta, certo, e però serve uno scatto, immaginarsi oltre il recinto, reinventare il rapporto con un pubblico che continua a cambiare, si frammenta, si muove su traiettorie plurali, chiede di essere sorpreso, spiazzato. E qui la responsabilità non è solo valle dell’offerta, ma a monte e investe i produttorie tutte le componenti della filiera, dai registi agli sceneggiatori.
Sembra una stagione arcaica quella delle multisale, una stagione soffocata nell’entropia paradossale di tanti film pronti a essere distribuiti e di pochissimi offerti e replicati in quelle che dovevano essere le nuove cattedrali del consumo cinematografico. Bisogna prendere atto che forse quella stagione è finita e bisogna inventarsene un’altra e magari pretendere la protezione di un articolato sistema di finestre, sapendo che lo spettatore è anche un utente domestico della rete-televisione. Tanto più i giovani che ormai disertano la tv generalista, prediligono le play station, i social e anche le piattaforme: non si tratta di ragionare su anabasi impossibili, riportarli nelle sale come se fosse una transumanza, al centro ormai è il prodotto, vince quello che attrae, ha dentro di sé il seme della differenza, lo sguardo sghembo, impertinente, beffardo, eccessivo..
Facile a dirsi, e tuttavia questa è la strada perché tocca la motivazione profonda per cui qualcuno decide di sedersi davanti a uno schermo, magari con il plus che lo convince a entrare in una sala buia e a non aspettare che arrivi a casa.
E comunque un nodo resta e fa parte consustanziale dello scenario, gioia e dolori, virtù e vizio, inscindibili e dunque da affrontare consapevoli del viluppo.
Abbiamo detto dell’integrazione, indietro non si torna. Integrazione fa sistema, condivisione, scambio, si perde lì si guadagna là, una macchina oliata e in apparenza perfetta, e tuttavia attenzione al fantasma dell’omologazione, attenzione a un sistema che tutto inglobando e finanziando, finisce per perdere il senso della differenza.
La televisione finanzia film che poi andranno in televisione, le piattaforme producono film che lì hanno il loro destino, la bulimìa dell’offerta e del consumo si avvitano l’una sull’altra.., tutti scrivono tutto, tutti interpretano tutto.. Un’integrazione solo assecondata comporta il rischio di appiattire e uniformare e dunque anche per la sua tenuta nel tempo non deve illudersi di avere “la formula perfetta”. Mettendo da parte l’etica e guardando alla convenienza, deve avere la capacità di aprirsi alla diversità e dunque a una lungimirante capacità di dis-integrarsi, di lasciare spazio ai percorsi tangenziali che escano dal cerchio normalizzante, anche quando sembra provocatorio e interpellante.
Al cinema italiano comportarsi da dépendance timorosa di un assetto multimedial-digitale subìto o avere lo scatto che viene dalla curiosità, dall’apertura al mondo che cambia, a una società che ha bisogno di specchi che la riportino alle contraddizioni della vita e al bisogno immaginario di conviverci. In una nuova sala buia e nel salotto di casa.