Il Fuortes Apache è capitolato senza combattere. Il servizio pubblico è sempre più un “dipendente” dei partiti (e non dello Stato e delle comunità). Con un piccolo dettaglio: niente è più come prima nel sistema della comunicazione e del consumo di immaginario audiovisivo. Cambiare conduttori e narrazioni è come turare le falle al Titanic Rai con i tappi dello champagne.
Cambio con annesso decreto al vertice Rai. Molti commentano: tutto come sempre, chi vince le elezioni si prende la Rai, è successo anche prima, non c’è differenza con il passato. Premesso che un decreto legge riguardante un settore dello spettacolo di èlite, ma di èlite mondiali, come la Lirica, per liberare il posto all’amministratore delegato Rai uscente, e trattando per le sue dimissioni, non si era ancora mai visto, qualcosa di molto diverso c’è: lo scenario in cui avviene questo cambio di vertice.
Due premesse: il passaggio progressivo da un vertice Rai eletto dai presidenti delle Camere ad un amministratore delegato, che è, in realtà un amministratore unico, ha avuto il suo coronamento con la legge “Renzi” ma è cominciato prima. Con la legge Gasparri, il consigliere nominato dall’esecutivo era decisivo per la maggioranza . Seconda premessa: quando è arrivata la legge Renzi, il Tesoro, cioè il Governo, aveva già il 99,95% del capitale Rai, un’anomalia persino rispetto ai tempi dell’Iri.
Primo: la “staffetta” di amministratori delegati, già annunciata, senza tener conto dei risultati ottenuti da un manager, fa capire che l’uomo forte in Rai non sarà, meglio non è Roberto Sergio, ma Giampaolo Rossi. Curioso che pochi abbiano notato che un tempo si diceva “hanno vinto le elezioni, si prendono la maggioranza in Cda”. Oggi il Cda conta così poco che può anche restare al suo posto mentre impera un vertice monocratico. Cercasi narrazioni equilibrate. O no? Il problema principale è che questo vertice non potrà concentrarsi su quello che vorrebbe: Tg, rubriche e conduzioni, in poche parole sul “riequilibrio delle narrazioni”. Cosa possibile, in altri decenni. Perché? Perché l’intero sistema televisivo si trova coinvolto nella transizione (cit. Sergio Bellucci) verso un nuovo universo visivo e audiovisivo. Di questa “narrazione” deve occuparsi prioritariamente il nuovo vertice, pena una crescente marginalità della Rai – e della cultura nazionale – sul mercato. Servono a poco narrazioni “equibrate” all’interno di una barca che affonda. Un universo dove regna la total audience di Auditel, dove i contenuti televisivi devono essere adatti (da quando sono ideati e scritti) e adattabili ad ogni piattaforma, fissa e mobile, dato che devono conquistare (e produrre) consumo differito, non solo quello della visione live. Universo dove l’etere, o meglio le frequenze, saranno utilizzate da una serie di servizi, di oggetti e di mezzi, che saranno per questo in competizione con le tv e le società di telecomunicazione. E i contenuti televisivi potrebbero diventare la vera Killer application per la diffusione della rete unica a banda ultralarga nella gran parte delle famiglie. La Rai si deve preparare alle resilienza del digitale terrestre ma anche all’affermazione di nuove piattaforme.
Cambiare programma
Un programma deve avere ormai diversi formati, deve avere contenuti dalla pre-trasmissione al consumo non lineare, deve tener conto che la domanda dei pubblici, attraverso i social, diventa parte integrante e condizionante dell’offerta. E, talvolta, la sostituisce. Tutto questo, mentre si dovrebbe passare ad un nuovo standard televisivo, il Dvb T2, con trasmissioni in 4k, ricevibili anche in mobilità da terminali con il chip adatto. E mentre gli ascolti di emittenti “non riconosciute” (ancora) da Auditel, vale a dire quelli dei colossi dello streaming ma anche del gaming, hanno ormai una media del 20% sull’ascolto quotidiano e non possono che crescere via via che si diffondono gli Smart tv connessi e si connettono quelli presenti nelle abitazioni ma non collegati alla Rete.
Chi troppo vuole….Martin perse la cappa
Questo è stato il grande errore dei maggiori operatori nazionali, con la Rai “stranamente” senza una propria posizione, a fronte della cessione della banda 700 decisa dall’Ue: per non perdere frequenze e programmi, sono stati collegati per decreto l’abbandono della banda 700 e il passaggio al Dvb T2. Tranne ora frenare lo switch off al T2, a scapito soprattutto delle tv minori e di quella locali, ridotte ad un multiplex per regione rispetto ai quattro procedenti dal Piano frequenze del 2019. Ecco perché si è tentato, da parte del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, di far passare come switch off il cambio di codifica dal Mpeg2 al Mpeg4, con il 90% degli apparecchi già in grado di vedere con la nuova codifica. Una visione né industriale né culturale del servizio pubblico La Rai ha sempre pagato lo scotto di essere “interpretata” dalla politica, ma anche da molti esperti ed osservatori esterni, principalmente come strumento di produzione di consenso: ”la Dc è il mio azionista” disse Bruno Vespa. Oggi si cercano narratori “di parte”, quasi sempre cresciuti in Mediaset. In altre parole, la Rai non è mai stata inserita in visioni e/o progetti né industriali né culturali. Il servizio pubblico “motore” dell’innovazione, insieme ad altri soggetti, sul modello della NHK giapponese, non è mai stato un obiettivo dei decisori. Nonostante un Centro di Ricerche, a Torino, che, con opportuni investimenti pubblici, non solo di Rai, poteva essere all’avanguardia su tutti i mercati nel passaggio al digitale (in parte lo è stato comunque).
La Rai “industriale” (e indipendente….altrimenti non solo non si fa pluralismo, ma non si è nemmeno impresa) avrebbe potuto essere il volano dell’intera industria culturale e dello spettacolo nazionale, con solide sponde europee. L’Italia è paese di eccellenze non solo gastronomiche, come ci mostrano ad ogni ora di tutti i giorni le tv nazionali e satellitari, ma anche culturali, dalla Lirica al Teatro – un tempo il cinema, discorso aperto per la Rai- fino all’industria libraria, con l’emergere di scrittori in grado sia di conquistare lettori all’estero sia di diventare gli sceneggiatori dell’immaginario televisivo…in attesa dell’AI. La Rai dovrebbe diventare co-editore, co-produttore, co-realizzatore di una Cultura Nazionale che conquisti pubblico in Italia e all’estero, oltre ad essere veicolo di comunicazione e immagine per il Paese. Compito, quest’ultimo, certo più da servizio pubblico finanziato (finora) dal canone che da azienda che vive anche sul mercato (pubblicitario). Qui si apre il discorso scabroso sulla mancata diversificazione societaria del servizio pubblico, che pure ha una contabilità separata tra introiti pubblici e privati.
Canone, RaiWay, Ascolti, Concessione.
Il nuovo amministratore delegato, e il suo direttore generale e successore, con un Cda che si spacca sul nome del primo, dovranno affrontare l’onda d’urto della transizione, senza un progetto da parte della politica e dell’intera classe dirigente. Dovranno farlo con un canone che sarà con ogni probabilità abolito in quanto tale e trasferito alla fiscalità generale (pagata sempre dai cittadini a cui diranno: vi abbiamo tolto una tassa…), quindi con un’ulteriore dipendenza da Governo e maggioranza, di qualsiasi colore. Dovranno far fronte ad un indebitamento consistente a fronte di investimenti tecnologici non all’altezza della sfida. Dovranno aspettare la risposta al punto interrogativo sulla cessione o meno di RaiWay e alla sua fusione con EI Towers, anche qui in mano alla politica. Dovranno far fronte all’aggressività di nuovi concorrenti, da Disney Plus a Discovery, dovranno rilanciare un’offerta di canali nativi digitali che non riesce a competere con Mediaset. Dovranno fare i conti con un’offerta che nel trimestre dopo Sanremo, perde ascolti come tutta la tv riconosciuta, ma più di Mediaset, subendo così un altro sorpasso dal concorrente privato (se di concorrenza si può parlare nel sistema televisivo).
Nel 2027, infine, scade la concessione alla Rai. Inutile sperare in un dibattito pubblico, da avviare adesso, su missione, risorse, dimensioni, assetto di un nuovo servizio pubblico. Bisogna capire cosa, prima del 2027, accadrà a questa Rai ancora senza contratto di servizio (per poco?), destinata ad attendere gli eventi nella propria fortezza, circondata dal deserto dei tartari della tv individuale.