Premessa: con questo film siamo distinti e distanti dal coro amorfo e noioso di quel cinema nazionale autoreferenziale che ruota tutto e sempre intorno a poche idee solitamente tutte centrate sul proprio ombelico, con la stessa compagnia di giro con lui nella parte di lei e lei nella parte di lui e noi poveri spettatori con il mal di pancia costretti a rifugiarci nella comoda poltrona di casa con un Netflix qualsiasi pur di sopravvivere. Abbiamo alle spalle, nella scorsa stagione, tre titoli di tre grandi registi che nel loro massimo splendore narrativo hanno scritto e diretto tre film totalmente autobiografici: Verdone con Vita da Carlo, Moretti con Tre piani e Sorrentino con E’ stata la mano di Dio. Troppo poco per rendere giustizia alla sana voglia di creatività, di idee, di racconto e di fantasia che il cinema richiede.
La stranezza di Andò ci porta invece diritti nel cuore dell’essenza del cinema, del racconto per immagini dove in questo film i due termini sembrano coniugarsi perfettamente. C’è il racconto ed è un Signor Racconto per la penna di un certo Luigi Pirandello e del suo capolavoro che gli ha visto riconoscere il Nobel per la letteratura nel 1934. Si potrà discutere in lungo e in largo sul carattere “politico” del prestigioso riconoscimento avvenuto in piena era fascista (alla quale aveva aderito con convinzione dal suo avvento ) ma certamente c’è poco da dire sul carattere monumentale della sua opera.
La trama è apparentemente semplice: due impresari di pompe funebri si cimentano in una rappresentazione teatrale che prende spunto da storie e personaggi locali. Caso vuole che Pirandello si trovasse da quelle parti e assiste allo spettacolo e ne prende spunto per realizzare, appunto, l’opera che gli ha meritato il Nobel: Sei personaggi in cerca di autore che verrà rappresentato realmente a Roma al Teatro Valle nel 1921. Si tratta della sua prima opera incentrata sul “teatro nel teatro” e, in questo caso, del teatro nel cinema dove realtà e finzione, commedia e tragedia si mescolano in modo convincente. Se proprio si volesse trovare un punto debole del film di Andò è tutto però nella sua intrinseca qualità: spesso la memoria torna al “marchio di fabbrica” del cinema italiano ovvero Federico Fellini. il Maestro ha fatto buona scuola e La Stranezza ne riprende e ripropone tanti spunti.
La sceneggiatura è di alta qualità: dialoghi in dialetto siciliano sottotitolati che non fanno perdere nulla della loro essenza e, anzi, rafforzano la forza narrativa dei personaggi. Come ha scritto un altro grande siciliano, Andrea Camilleri, “… il dialetto che esprime il sentimento della cosa e la lingua che della medesima cosa esprime il concetto”. Ci sono poi le immagini e la cura della scenografia: fotografia di qualità, grande attenzione alle inquadrature, gamma cromatica ineccepibile con tono e timbro dei colori avvolgenti. Infine la recitazione: al netto del “solito” Toni Sorvillo che insieme alla consolidata capacità attoriale, unisce una somiglianza al personaggio che rende ulteriormente suggestiva la sua prova, tutti gli altri a partire dai due Ficarra e Picone e per finire all’ultima delle comparse rendono giustizia alla professione dell’attore nella sua forma migliore, pulita ed essenziale.
Non è un caso che anche gli spettatori hanno premiato il film di Andò con il primato degli incassi. Buon segno: il cinema italiano rimane in crisi e le sale faticano a sopravvivere ma almeno c’è speranza e fiducia che almeno un film del genere potrà sempre sostenere e vincere la sfida con i colossi dello streaming televisivo.