La verità è che ci aspettiamo sempre molto dalla Rai, dal servizio pubblico, e per questo non passa stagione che non se ne discuta. Che ruolo debba avere? Se sia un arnese antiquato, irrimediabilmente legato al Novecento oppure possa ancora avere un funzione. Se debba essere pagato dai cittadini con un canone o vada privatizzato. E poi la politica, i partiti, le maggioranze che cambiano e si susseguono…
Vorrei subito sgombrare il campo da un dubbio, il servizio pubblico è tutt’altro che un ferrovecchio, è utile, anzi necessario, anche in questa società che è così diversa da quella in cui esattamente un secolo fa nacque l’idea di un public service a cui affidare la gestione di un bene allora raro, in regime di scarsità, come le frequenze radiofoniche.
Però, si deve subito aggiungere che quell’idea non può più accompagnarsi a una connotazione radio (e poi) televisiva che si fondava sulla centralità del cosiddetto modello generalista: un emittente in regime di monopolio pubblico che trasmette a tutti in un ambito rigorosamente nazionale, basata su un flusso-palinsesto unidirezionale un’equilibrata offerta, secondo la trinità di Lord Reith, primo direttore generale della BBC, informazione, educational e intrattenimento.
Più o meno da quarant’anni è arrivata in Italia la tv commerciale, nel modo particolare in cui si è sviluppata, con la conseguenza di un “sistema misto” e di una concorrenza che il servizio pubblico ha vissuto ambiguamente, scisso per un verso tra mercato e servizio, per l’altro alla ricerca di un primato, ma anche con inconfessate trasversalità.
E poi, sintetizzando, lo shaker del digitale, la moltiplicazione dei canali e soprattutto un unico codice-bit in cui tradurre parole, immagini, suoni e dati e riversarli, con la possibilità dell’interazione, su una serie di dispositivi integrati, telefonini, i-pad, computer. Con il risultato che la televisione, storicamente ricoverata nel bozzolo domestico, con tutta la famiglia riunita nella sala da pranzo per l’appuntamento della serata, è esplosa per replicarsi sugli schermi più diversi, ingoiata dalla rete che nel frattempo è cresciuta a dismisura, fino a diventare un’interfaccia della vita quotidiana, dall’impareggiabile flessibilità multitasking con cui risucchiare le occupazioni e i comportamenti di ogni giorno: leggere, scrivere, lavorare, consultare, vedere, ascoltare, giocare, comprare e vendere, collegarsi con questo e con quello, consumare news e spettacolo, vivere nel mondo parallelo dei social, diventare attore e produttore, regista e conduttore, reporter e imbonitore…
Non ci vuole molto per capire che la televisione è uscita sé e che la sua funzione generalista si è spostata, trasferita, moltiplicata e frantumata in un dispositivo a tempo pieno che ha la straordinaria – e non per questo rassicurante – qualità di dare a ciascuno l’impressione di essere artefice del proprio destino e di trasformarlo intanto nella risorsa produttiva, nel “lavoratore” che quel dispositivo sfrutta per (ri)creare e replicare se stesso. E darsi nuove frontiere come l’onnicomprensivo e ubiquo Metaverso, di cui si fatino a trattenere i superlativi.
La Rai. Già la Rai, sta in questo scenario. Vi si trova oggettivamente e, per stare al concreto, risponde con un insieme di iniziative di cui RaiPLay è il punto di caduta e al tempo stesso dovrebbe essere un motore propulsivo di uno spostamento che accompagni il graduale – e ormai consistente – ridimensionamento generalista verso un consumo non sottoposto ad appuntamenti e fondato sulle scelte dell’utente esattamente come si fa al supermercato, via via selezionando quello che si vuole. Come al supermercato, ma con l’accortezza di precisare che un differenziale di servizio pubblico deve esserci. E su questo si può e si deve discutere fatto salvo il principio che la piattaforma deve darsi come interfaccia creativa dell’offerta: porta d’accesso alla messa in onda, magazzino con mappa d’orientamento, laboratorio di un’offerta aggiuntiva e specifica..
La realtà è che siamo in un guado con le incertezze che di per sé comporta un passaggio che lascia una sponda e ne intravede un’altra e però anche in una sorta di indecisa formazione di compromesso. Della quale le motivazioni sono varie:
- la centralità persistente del broadcasting generalista, di cui si dovrebbero strategicamente ridefinire con chiarezza e lucidità perimetro, funzioni, obiettivi e destinatari;
- una visione editoriale che si basa sulla ormai storica tripartizione delle reti e che, se lascia alla prima la funzione (iper)generalista, vede erodersi gli ascolti delle altre due, una alla ricerca di quella che un tempo si chiamava “la modernità e l’innovazione”, l’altra chiusa nel fortilizio di un impegno sui contenuti che in controluce lascia ancor trasparire nei palinsesti radici ormai lontane;
- una riforma-cassettiera per generi che rappresenta una sfida – e per certi versi, mutatis mutandis, riporta la Rai all’assetto degli anni Sessanta – che sta impattando sull’azienda e sconta le difficoltà che vengono dagli assestamenti dei confini tra un territorio e l’altro, e dalla necessità di garantire un chiaro profilo identitario alle reti.
Tutto questo in una cornice che fa parte strutturale del servizio pubblico e cioè il rapporto costitutivo con la politica, con le ambiguità che conosciamo.
La Rai è e deve essere pubblica, nel senso fondante di un servizio che a tutti deve rivolgersi, “universale” nel senso che a tutti deve dare la possibilità di informarsi sull’attualità, avere strumenti di conoscenza del mondo in cui viviamo, del passato da cui viene e del futuro che ci attende – tanto più nell’emergenza ormai strutturale che stiamo attraversando. Politica, dunque, nel senso di neo-agorà di una polis che non è più (solo) analogica, ma una galassia di opzioni interattive, e che ha bisogno ancor più oggi di punti di coagulo della fluidità sociale, relazionale, culturale, di nodi, incroci in cui tutti possano trovarsi e riconoscersi.
Potrebbe sembrare la riproposizione di un’idea “vecchia” di servizio, superata da una realtà in cui sono aumentati a dismisura il fai-da-te e il panorama delle opportunità che si offrono a ciascuno con una straordinaria duttilità/flessibilità/adattabilità. E invece è proprio a partire da questa dispersione/frantumazione che si può e deve rilanciare il ruolo “politico” del servizio pubblico.
E però c’è l’altra faccia del Giano della politica. E cioè – lo sappiamo – il rapporto che, se è necessario e fondante con le istituzioni, si dà nel compromesso con l’empirìa della politica, con il gioco diveniente delle rappresentanze di partiti – anch’esse con problemi profondi di legittimazione e di identità – che se è un corollario della democrazia, non riesce a trovare un intercapedine, uno spazio di compensazione tra controllo e libertà, tra funzioni e costrizioni, tra competenza e mansione. Si finisce per rimpiangere la “lottizzazione” tripartita e intanto l’azienda si stressa per il turn-over delle maggioranze e sconta il rinvio o addirittura l’assenza di un impegno condiviso della politica per dare un assetto e una “forma” al servizio pubblico che lo rilanci con l’autonomia necessaria, nella cornice certo di una “carta di principi”.
Non si tratta di fare qui un fervorino di circostanza. La realtà è che serve un servizio pubblico capace di interpretare la complessità sfuggente e sfilacciata di una società presa nel vortice di trasformazioni epocali – una crisi delle identità che una volta erano di classe, pandemie, guerre, clima, una democrazia affaticata, una geopolitica che rischia di marginalizzare di contro a un orizzonte europeo da realizzare…. E, non bastasse, un servizio pubblico che si collochi strutturalmente e strategicamente nel divenire di un totalizzante dispositivo della comunicazione. Due compiti che non sono separati ma si intrecciano l’uno sull’altro e vanno affrontati a monte e a valle.
A monte, con una governance aperta e autorevole, e con un lungimirante e flessibile profilo dell’azienda, se necessario – ed è necessario – con alleanze strutturali oltre il perimetro radio-televisivo, un’organizzazione che vada oltre le separazioni, i territori feudalizzati, le rigidità dell’apparato, e una vocazione rinnovata al prodotto, che sia l’informazione in tempo reale, il racconto, l’approfondimento, la memoria (con i riflessi adeguati sull’articolazione/integrazione dell’offerta e sulle modalità di contatto con un pubblico in cui vanno a sovrappongono i profili di spettatori, cittadini e utenti).
A valle, con una grande apertura alla società che vuol dire riproporsi con una presenza che entra nelle case con autorevolezza, come un amico, un compagno di strada di cui ci si può fidare e che racconta della vita che è stata, è e sarà. E con antenne disponibili nei confronti di tutto quello che, accanto alla forza di una tradizione umanistica impareggiabile, emerge dalla società: novità, provocazioni, differenze invenzioni, esperienze nel segno della solidarietà e insieme il coraggio di chi innova o si sposta…
Che sia un servizio pubblico che accompagna e anticipa, un sensore, un laboratorio in cui lo sguardo più largo e comprensivo esalta e accoglie le differenze, che tiene insieme e diviene con il mondo, precario, sfuggente e vitale, con cui deve interagire.