I partiti hanno saputo prendere atto di questa anomalia e adeguare di conseguenza la comunicazione?
I partiti a tuo avviso riescono ad avere un’analisi credibile dei cambiamenti in atto, per esempio sui social (TikTok non è Facebook o Twitter e richiede una comunicazione totalmente differente) e ad adeguare le proprie proposte ai diversi target elettorali?
Il voto di settembre ci pone senza dubbio di fronte ad uno scenario lontano dalle nostre tradizioni elettorali. La storia repubblicana ci presenta un significativo precedente “autunnale” solo risalendo all’Italia sabauda del 1919 che usciva dalla Prima Guerra Mondiale con un pesante strascico di tensioni sociali. Un parallelismo interessante sotto molti profili che potrà essere analizzato anche negli esiti, ma che oggi è possibile solo abbozzare nelle premesse.
Anche in quell’occasione, si percepivano tutto il peso e le criticità di “eventi globali” che avevano lasciato ferite profonde e conflittualità mai sanate. L’introduzione del sistema elettorale proporzionale portò a cambiamenti rilevanti e vide, come è noto, l’affermazione di grandi partiti di massa che si affacciavano, ad uno stato ancora “nascente”, sull’agone politico: il Partito Socialista e quello Popolare appena fondato da Luigi Sturzo.
A distanza di un secolo ci troviamo oggi con un’Italia che tenta di nuovo di uscire da un’emergenza di dimensioni planetarie, quella pandemica e da preoccupanti scenari di guerra alle porte dell’Europa. Non sono sicuramente le condizioni ideali per un voto “sereno” come dimostrano, soprattutto in questi ultimi giorni di campagna elettorale, i toni di alcune forze politiche in campo. Mi sento qui di ricordare quanto gli studi sulla comunicazione soprattutto multipiattaforma ci insegnano a proposito del ruolo che i media giocano nella costruzione sociale delle identità politiche e dei soggetti in campo, non di rado con scarsissimo riguardo a un pluralismo reale delle rappresentazioni, e comunque troppo spesso con un malcelato sdegno nei confronti della par condicio (un errore ottico impressionante se si pensa a quanto nei prossimi anni il dispotismo comparativo delle piattaforme digitali costruirà offerte battendo troppo spesso “bandiera panamense”).
Per di più sappiamo che è in corso da tempo un processo tutt’altro che graduale di vera e propria sostituzione della politica con la comunicazione in tutte le sue declinazioni[1]. Gli studi condotti negli ultimi anni testimoniano che ad una lunga fase storica in cui i mezzi di informazione si ponevano in un atteggiamento di narrazione e mediazione di temi e discorsi politici, si è avvicendata una stagione in cui essi diventano la piattaforma vincente di interazione con la domanda “dal basso” e con gli stessi pubblici. Si ha così la riprova di quanto sia più centrale che mai, nell’esperienza sociale degli uomini moderni, la dimensione comunicativa e in particolare quella virtuale, divenuta il terreno privilegiato di conflitto nel mercato dell’influenza e nell’economia dell’attenzione. E’ comprensibile che durante una campagna elettorale tutto questo diventi più appariscente e oggetto di disputa.
Diverse sono le riflessioni che si possono fare a tale proposito. Abbiamo superato da decenni gli assunti della teoria ipodermica di H. Lasswell, ed è evidente che oggi pochi credono ancora ai media come ad uniche armi persuasive in grado di agire su masse passive e impotenti. Assistiamo semmai ad un vero e proprio rovesciamento di tale scenario, perché oggi un individuo è in grado (e comunque crede di esserlo) piuttosto di costruire un proprio “palinsesto elettorale”. Ma il nodo è esattamente qui, e allora gli aspetti da considerare sono almeno due. Il primo è che questa campagna di comunicazione politica appare molto “crossmediale” e molto poco “transmediale”, il che vuol dire che spesso ci si limita ad “attraversare” le diverse piattaforme (TikTok, Facebook, Twitter, Instagram), ma adattando in modo solo approssimativo le semantiche e le sintassi dei messaggi al puro scopo di intercettare platee e pubblici di diversa tipologia. In altri termini non ci si preoccupa quasi mai di adottare grammatiche realmente diverse, al di là dei loro elementi basilari.
Il secondo elemento è che una comunicazione politica eccessivamente sbilanciata sui social, asservita cioè al sovranismo digitale e dunque, in buona sostanza, disintermediata[2] rischia di diventare un’enorme eco chamber in grado soltanto di rafforzare opinioni e identità precostituite, senza aumentare quella dose di pluralismo e confronto democratico di cui invece avremmo assoluto bisogno.
Aggiungiamo però almeno altri due immancabili corollari, una polarizzazione da talk show e una personalizzazione dal sapore quasi divistico da parte di alcuni leader di partito. E così il “piatto della disinformazione” è servito.
Tutto questo ci pone evidentemente di fronte a problemi significativi anche e soprattutto dal punto di vista della regolazione, e dunque in merito alla necessità di aggiornare la legislazione sulla par condicio certamente concepita in una fase ben diversa fase della storia della comunicazione.
I sondaggi hanno orientato l’intera campagna elettorale, tanto che a tratti la campagna politica sembra essere quasi un commento su risultati già acquisiti. Ha senso vietarli solo negli ultimi quindici giorni? Cosa pensi dell’uso dei sondaggi e sulla loro rappresentatività sociale?
Il primo nodo da affrontare è quanto già la stessa dichiarazione ufficiale di apertura della campagna elettorale alteri i trend abitualmente forniti dalle società di indagine demoscopica sull’apprezzamento tributato ai vari partiti. È evidente che quest’ultimo dato è influenzato anche dalle alleanze realizzate e/o mancate. Resta tuttavia il fatto che “essere in campagna” può rappresentare un fattore connotativo di radicalizzazione delle scelte. La pubblicazione periodica e sistematica dei sondaggi fino a quindici giorni prima del voto accentua tale clima, anche in ragione dell’amplificazione dei loro echi indotta dalla cassa di risonanza mediatica. In altre parole, non c’è un’agevole possibilità di confrontare i dati sui partiti interrogati “a freddo” e l’improvvisa “partitizzazione del voto” nell’imminenza di un appuntamento elettorale, ma è innegabile che è la stessa architettura comunicativa delle campagne elettorali ad avere il bisogno di “eccitarsi” sui sondaggi e dunque il nodo delle ricerche demoscopiche diventa giocoforza il grande regolatore della preparazione degli italiani alle urne.
Sappiamo bene, inoltre, che gli investimenti in comunicazione politica si costruiscono essenzialmente proprio sulle previsioni elettorali; è vero in qualche misura per i partiti, ovviamente sensibili alle oscillazioni percentuali, ma è ancor più rilevante per le imprese comunicative a partire dai grandi sistemi televisivi, Rai compresa. Annotiamo che quest’ultima, vincolata dalle norme a tener conto adeguatamente della forza parlamentare uscente dei singoli partiti, sembra correggere sistematicamente questo dato mediando con una costruzione comunicativa basata sui sondaggi attribuiti ad ogni soggetto politico. Resta il fatto che si tratta del sistema mediale più attento al pluralismo e in generale questo comportamento sospeso tra risultati precedenti e sondaggi vale a fortiori per tutte le altre fonti, anche digitali.
Concentrando l’attenzione sul lavoro delle inchieste demoscopiche, emergono aspetti rilevanti che possono sfuggire nella misura in cui la concentrazione dell’attenzione tende ad accendersi sui partiti verso cui si è orientati. Il primo è che non c’è una relazione biunivoca tra rispondenti ai sondaggi e votanti. Di norma il tasso di mancata risposta alle interviste non coincide con il tasso di astensionismo, che resta un nodo fondamentale per verificare da un lato lo stato di salute della democrazia di un paese, dall’altro anche per valutare la capacità dell’intero sistema politico di rappresentare una forma adeguata di “contenimento della domanda di base” (cito il grande sociologo Franco Rositi scomparso proprio ad agosto, che ha studiato “La politica dei gruppi”). E’ tutt’altro che escluso, inoltre, che tra i rispondenti alle interviste demoscopiche figurino persone che non hanno intenzione di recarsi ai seggi. Questo può determinare ovviamente un qualche margine di incertezza in merito all’“attendibilità finale”, e dunque all’effettiva rappresentatività dei sondaggi, ma apre alla presa d’atto che questi, letti ex post rispetto ai risultati, ci diano informazioni anche sugli orientamenti degli astenuti.
Osservando la costruzione di un “clima di campagna” (una tipica definizione della sociologia elettorale americana), mediando tra i diversi appuntamenti elettorali precedenti, si possono trarre ulteriori considerazioni. I trend in generale sono leggibili a due livelli: da un lato i partiti nuovi o che ostinatamente rivendicano aspetti di innovazione (anche semplicemente comunicativa) godono di un vantaggio nell’economia dell’attenzione. Un ulteriore aspetto è dato, come sopra si sottolineava, dall’effetto polarizzazione: in un regime elettorale maggioritario come il nostro, con correzioni proporzionali non secondarie, è evidente che si produca una concentrazione sulle prime forze politiche in conflitto. In altre parole, il “clima di campagna” tende a servirsi di correnti centripete, probabilmente aumentando l’attenzione sui due partiti principali. Un terzo elemento non meno incisivo dei precedenti, soprattutto dopo il Covid, è – di nuovo – l’effetto personalizzazione, riconducibile agli eccessi prestazionali della comunicazione rispetto alla politica, che non risparmia certo molti leader italiani. Ebbene la personalizzazione non influenza quanto la polarizzazione, e per di più sembra in qualche misura risparmiare i due principali protagonisti della disputa elettorale. Si può notare infatti che la fame di visibilità diventi ancor più percepibile nei soggetti politici di “seconda fascia”.
Un quarto indicatore che può essere citato, anche se la situazione italiana lo rende più improbabile poiché nell’ultima governance erano inclusi quasi tutti i partiti, consiste in un vantaggio differenziale per le forze di opposizione. Nell’occasione di cui stiamo parlando ovviamente un tale trend è già intercettato significativamente da Fratelli d’Italia, ma anche da forze minori o intermedie che hanno oscillato tra governo e opposizione (secondo la celebre definizione occhettiana “partito di lotta e di governo”).
Segnaliamo ora un’ultima criticità che si rende più evidente man mano che progredisce la campagna: negli ultimi 15 giorni i sondaggi non possono essere pubblicati. Probabilmente sarebbe necessario un periodo più lungo di sospensione delle inchieste demoscopiche. Mi feci portavoce qualche tempo fa, insieme al giurista Beniamino Caravita, che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita alla riflessione sulla dinamica social versus politica, di una possibile proposta legislativa in tal senso, relativa anche al rafforzamento del silenzio elettorale. Sono convinto che sia indispensabile assicurare ai cittadini uno spazio di riflessione più autonoma di quella precedente influenzata dai trend. Resta la presa d’atto che è corrente la sensazione, fondata su prove di elezioni precedenti, che le ultime due settimane possano risultare decisive per gli equilibri finali. La rilevanza di questa fase è stata ripetutamente affrontata anche da chi scrive osservando l’impressionante aumento dei tassi di esposizione dei pubblici alla comunicazione politica dei grandi sistemi televisivi contemporanei. In tutte le elezioni di questo secolo, e ci stiamo autolimitando solo ad un ventennio, l’incertezza elettorale aumenta i dati di audience dei programmi politici e persino di quelli informativi. Una tale tipologia di format previsti dalla legge e in qualche misura autogestiti, pur non particolarmente godibile dal punto di vista dell’innovazione, ottiene tuttavia una forte risposta di pubblico, a segnalare quanto l’incertezza sia acuta e non facilmente risolubile.
Un ulteriore elemento da non trascurare nello scenario che stiamo delineando, anche dal punto di vista dei sondaggi, è il fatto che è difficile per chiunque interpretare adeguatamente i trend e le direzioni di voto dei giovani che, per la prima volta, si recano alle urne (non necessariamente dunque gli juniores). In questo caso la difficoltà è quantitativamente non decisiva perché i giovani sono una coorte meno rilevante rispetto alle altre. Resta il fatto che la loro rappresentatività nelle campagne elettorali e nelle scelte per il Parlamento è sempre il nodo critico di cui occorrerebbe farci carico, soprattutto a partire da un reinvestimento da parte dei giovani sulla politica.
Non dovremmo mai dimenticare, infatti, che le elezioni sono un momento importante, anche dal punto di vista simbolico e rituale, della vita democratica perché non solo “mettono in scena” la promessa di una scelta di governance e di una ravvicinata visione del futuro, ma si incaricano anche di un processo ben più profondo e duraturo: trasformare in voti i cambiamenti sociali e valoriali intervenuti in una determinata fase storica. E qui è importante ribadire che tra questi fattori di cambiamento occorre mettere al centro la doppia emergenza della guerra in corso in Ucraina ma soprattutto i mutamenti che la pandemia aveva costruito: siamo di fronte a una doppia novità per il nostro paese. Da un lato gli studi da me condotti hanno rilevato un netto miglioramento delle scelte informative e comunicative da parte dei pubblici, correggendo un trend alla disintermediazione che appariva irreversibile; dall’altro, uno spostamento del paese verso un orizzonte che è giusto chiamare della responsabilità. Una forma importante, dunque, di correzione di quella tendenza all’individualismo che prepara alla lunga il disimpegno etico, così caratteristico di alcune azioni e comportamenti dei moderni.
L’interruzione brusca della legislatura ha certamente impedito che i cambiamenti culturali registrati potessero diventare strutturali grazie alla presenza di un Governo tecnico la cui reputazione è stata tra le più alte che mai abbiamo visto nella storia della premiership di questo paese. E’ vero che gli studi del passato ci dicono che la relazione tra innovazioni sociali e loro “trasfigurazione” nelle scelte politiche non è necessariamente ancorata al primo turno elettorale.
Tuttavia c’è da pensare che i cambiamenti siano più profondi rispetto alle evidenze di una campagna elettorale ancora una volta “gladiatoria”, scarsamente propensa ad offrire una vera informazione sui progetti di futuro, mentre non mancano promesse elettorali che poco hanno a che fare con le bandierine che gli stessi partiti hanno ostentato nel semestre precedente. E’ infatti possibile che il passaggio elettorale faccia emergere lo schieramento immediato a favore o contro una formula o una persona, mentre vivevamo una fase in cui la società sembrava finalmente disponibile a recuperare una più matura e responsabile percezione di cittadinanza. Sappiamo tuttavia che la politica può dare emozioni non effimere, soprattutto se non si costruisce un clima permanente da referendum. Qualunque sia, in conclusione, il risultato elettorale, possiamo già oggi annotare che il bipolarismo non favorisce una ripresa dell’opinione pubblica, incoraggiando invece una frammentazione partigiana più adatta alle curve dei talk show che a ricostruire un rapporto corretto e salutare tra la comunicazione politica e la vita.
[1]Ho discusso questi temi in M. Morcellini, M. Prospero (a cura di), “La comunicazione al posto della politica”, Paradoxa, settembre 2020, n.3.
[2] Cfr. A. Papa, “L’impatto della disintermediazione informativa nei processi di formazione dell’opinione pubblica. Quale (problematica) prospettiva nella “democrazia della comunicazione”, in Diritto ed economia dei mezzi di comunicazione, n. 1, 2022.