La Tv rimane al centro dei nostri pensieri. Intendo di coloro che in qualche modo vivono di Tv, con la TV, per la TV. Forse un po’ meno per il resto dell’umanità.
Come per il giornalismo anche per la fruizione televisiva, assistiamo ad un’espansione esponenziale del servizio- nel caso del primo con l’alluvionale flusso di informazioni, nel caso della TV con un’altrettanto alluvionale produzione e distribuzione di narrativa audiovisiva- a cui però in entrambi i casi corrisponde una contrazione delle mediazioni convenzionali- i giornalisti o l’audience e la pubblicità per canali televisivi.
Su questa caratteristica della società della comunicazione mi pare inevitabile discutere quando analizziamo, come ha fatto ultimamente Marco Mele, i trend del mercato tv.
Come sempre Marco ci ha dato nel suo articolo “Quando lo streaming si mangerà la TV“, una felice sintesi di informazione e opinione, combinando dati non usuali con una lettura accurata delle tendenze. La fotografia è quella , il video mi sembra che potrebbe dirci altro. Intendo dire che valutando con una visione prospettiva i dati che sono stati analizzati dovremmo cogliere tendenze e dinamiche ulteriori.
Mi aggiungo per questo al suo ragionamento, cercando di suggerire alcune di queste dinamiche. Vi propongo dunque una breve premessa e due osservazioni nel merito :la prima riguarda gli esseri umani, la seconda gli esseri artificiali.
La premessa è che tutti noi dobbiamo sempre fare lo sforzo di agganciare quel capitolo,ormai collaterale e sempre meno determinante per il sistema della comunicazione, che è il mercato televisivo, alla tendenza complessiva che sta condizionando e ordinando i nostri comportamenti, ossia l’arbitrato dell’algoritmo.
Sarebbe singolare e fuorviante infatti trovarci a dissertare della dinamica del mercato televisivo come se davvero fossimo in presenza di uno dei settori trainanti del nostro sistema relazionale e soprattutto se la Tv fosse il motore e non un semplice indotto di una trasformazione più vasta.
In sintesi, io penso, insieme a ben altri e più prestigiosi autori, che siamo nel pieno di una trasformazione antropologica, che Bernard Stiegler, nel suo testo la Società Automatica (Meltemi editore)sintetizza con così:” La selezione naturale cede il posto alla selezione artificiale. L’intelligenza artificiale è la prosecuzione della vita con altri mezzi rispetto alla vita che abbiamo conosciuto”.
In sostanza stiamo trasferendo attività e funzioni discrezionali nel campo dell’automatizzazione digitale, affidando ai proprietari di questi dispositivi intelligenti parte non marginale del nostro libero arbitrio e dello stesso corredo emotivo e sentimentale che anima il mercato dell’audiovisivo.
Proprio in queste ore ElonMusk ci annuncia che nei prossimi mesi sarà definitivamente disponibile un micro chip che impiantato nella nostra corteccia cerebrale dovrebbe preservarci da degenerazioni neurologiche, oltre che introdurre un centro di attività esterno nel cervello. O invece per stare solo nel recinto televisivo, l’apparecchio che ha lanciato Sky, di cui parla anche Marcoe su cui torno più avanti, indica un ulteriore allarmante escalation nell’autoprogrammazione che sistemi intelligenti sviluppano con i dati che gli forniamo.
Siamo proprio in quello snodo in cui, lo dice ancora Stiegler: nei processi informatizzati la decisione si stacca dal soggetto. Tutte le decisioni, da tutti i soggetti.
Sconsiglierei di liberarci da questo incubo relegandolo nel novero della fantascienza.
Abbiamo attorno a noi situazioni ed effetti della fantascienza del passato.
Se invece riconosciamo che questa è la tendenza che ci coinvolge, ossia una sempre maggiore intrusione di sistemi di calcolo nella nostra coscienza,mi pare utile comprendere quali effetti e riflessi di questa interferenza possiamo riconoscere già oggi nel complessivo consumo mediatico.
Alla luce di questa premessa, la prima considerazione che propongo di integrare nel ragionamento di Marco, è la raccomandazione a guardare innanzitutto agli utenti, agli esseri umani appunto, prima che ai device e alle piattaforme, per intuire quale siano le soluzioni che colgano realmente bisogni e ambizioni sociali. La tecnologia non esiste come categoria autonoma e separata dalle nostre relazione e interessi sociali, e soprattutto dai conflitti di proprietà. Essa è una conseguenza non una causa.
La trasformazione degli apparati della comunicazione, dal cinema al giornalismo alla TV, alla rete, viene sempre annunciata e ratificata da processi di evoluzione sociale. Bauman collegava, con un semplice buon senso, l’affermazione prima e la decadenza poi dei media di massa alla dinamica del lavoro di massa, e al relativo consumo di massa.
Ora noi ci troviamo in una società dove il lavoro è sempre più individualizzato, quando c’è, e i consumi sono completamente personalizzati. Di conseguenza mutano proporzionalmente tutte le funzioni indotte da questi fenomeni, fra cui la frequentazione privata dei sistemi televisivi generalisti e tematici. Basta dare un occhio al mitico divano che desolatamente vuoto si impolvera dinanzi alle tv nelle nostre case.
Vedere ad esempio che nelle grandi città, da Milano a Roma, i nuclei famigliari composti da un solo elemento arrivano al 40 % del totale, non può non annunciarci la fine della tvappunto da divano, dove telecomandi e programmazione venivano prima contesi e poi distribuiti dai componenti della comunità famigliare. Oggi il telecomando è sostituito dalla telepatia, ossia da soluzioni che ci permettono di sintonizzarci istintivamente e individualmente, nei momenti della giornata più diversi, esattamente con il programma che desideriamo. Si è del tutto frantumata l’unità aristotelica di tempo e di spazio che era la vera matrice della TV generalista o comunque comunitaria.
Non solo finisce la tv focolare, ma si esaurisce anche l’offerta alla carta, da menù, in cui si procede per opzioni successive alla ricerca del minimo comun divisore per il nucleo di utenti. Troppo faticoso e dispendioso cercare nel mucchio quello che ci piace.
Questo ci fa meglio decifrare il passaggio allo streaming che descrive Marco, lungo un percorso in cui la personalizzazione che ha caratterizzato le diverse forme dell’offerta televisiva è oggi diventata abbinamento, ossia un processo di individualizzazione estrema che connette ogni singolo utente , in ogni singolo momento della giornata chirurgicamente con il programma più coerente e funzionale alle sue necessità. Esattamente quel meccanismo che Jill Abramson nel suo saggio Mercanti di verità (Sellerio) con cui chiude la patetica stagione dei guru sul futuro del giornalismo, descrive le nuove funzioni redazionali nelle grandi testate americane, dominate e orientate dal verbo to mach, abbinare, collegare, inoltrare ogni singola notizia ad ogni singolo utente della piattaforma. Il broadcasting , da uno a tanto, viene organicamente sostituito dal browsing: ognuno cerca esclusivamente quello che in quel momento gli serve, con l’accortezza di recuperare ed usare contenuti diversi dai suoi simili.
Questa è oggi, a quanto vedo, la tendenze che traina e performa il sistema televisivo.
La vera rivoluzione è avvenuta con l’archiviazione di un principio che ha dominato e determinato tutto il ‘900, che sintetizzerei con una fulminante battuta di Sherlock Holmes che dice :un individuo rimane un rompicapo insolubile, ma inseriscilo in una massa e diventa una certezza matematica.
Non so se il fido Watson aveva capito, ma con questa massima l’eroe di Conan Doyle neutralizzava e recintava il contagio che aveva innestato Carlo Marx: trasforma l’alienazione individuale in una massa e avrai il soggetto rivoluzionario. Al contrario , spiega Sherlock Holmes: costruisci una massa e potrai dedurre e usare il suo senso comune per irretirla.
La massa è stata il bersaglio e l’oggetto del desiderio di tutti i mediatori, che il sistema televisivo prima e pubblicitario poi ,ha trasformato in una fabbrica di valore. Per tutto il ‘900 questo principio ha funzionato sia politicamente- le masse proletarie sono diventate masse di consumatori- sia sociologicamente- la massa era il laboratorio dei persuasori occulti.
Oggi il paradigma si è rovesciato: le nuove potenze del calcolo lavorano per estrarre dalla massa una moltitudine di individui, a cui ci si rivolge singolarmente ,con linguaggi e temi che sono intimamente connesse alla personalità singola.
Cambrtidge Analytica ha aperto una porta che non sarà mai richiusa: ogni singolo desiderio o volontà, daquella elettorale a quella consumistica, è selezionabile e condizionabile, parlando con ogni singolo soggetto, per quanto numerosi essi siano.
Per questo il potere è passato dal linguaggio al dispositivo: è il servizio di ricerca di Google che ti profila, la piattaforma di Facebook che ti configura, è lo streaming di Amazon che ti indentifica e abbina ai suoi prodotti.
Il contenuto è solo un mezzo, un pretesto per profilarti e sorvegliarti, scrive Shoshanna Zuboff nel suo tomo Il Capitalismo della Sorveglianza( Luiss editore).
Il mercato si è strutturato su questa relazione.
Netflix sta scoprendo che i suoi sistemi algoritmici di elaborazione dei dati degli utenti sono ancora approssimativi e si sta rivolgendo a soluzioni quali quelle adottate da Spotify, la nota piattaforma di programmazione musicale,che con il suo nuovo algoritmo non si limita più a campionare i nostri desideri, per fornirci la compilation più coerente con i nostri stati d’animo, ma ora mira a intercettare la parabola evolutiva delle nostre emozioni e sentimenti per indovinare fra 36 mesi quale musica ci piacerà.
Un processo che Spotify non si limita ad osservare, ma essendo anche un produttore di contenuti, esattamente come lo è Netflix, miscelando le sue proposte con offerte specifiche della suo produzione influenza proprio la tua evoluzione, spingendoti nella direzione che le sembra più plausibile ed utile per se.
In questa logica si spiega il fallimento dell’italianizzazione del palinsesto che Netflix voleva ottenere con l’ingaggio di Ninni Andreatta, sottratta alla programmazione di fiction della Rai.
I due mondi parlano lingue diverse perchè parlano con utenti diversi: la platea di Netflix raccoglie tutti quelli che nascono, quella della Rai conta tutti quelli che dipartiscono, per usare un termine meno crudo.Fra questi due estremi giocano gli altri players.
Forse qualcuno penserà che la sto prendendo troppo alla larga per capire come si struttura il mercato televisivo, ma io penso che proprio questa visione sia oggi la base di ogni offerta, di ogni tipo, compreso un palinsesto tv.
Come per la guerra in Ucraina, dove la composizione e dinamica della società civile ha prevalso sulle logiche degli apparati militari, maneggiando in maniera decentrata ed efficiente le risorse digitali, anche il mercato audiovisivo è innanzitutto sociologia, ossia capacità di cogliere i processi evolutivi nella fase dell’incubazione di queste nuove tendenze.
Fino a quando la trasformazionesociale richiedeva mezzo secolo per compiersi, pensiamo al passaggio dall’industrializzazione al terziario, il mercato poteva basarsi sull’ottimizzare la propria offerta, ma ora che si invece i cambiamenti si consumano in un biennio, il king è la domanda, che va colta e decifrata nelle sue frenetiche contorsioni.
Strumento per ridurre il rischio e lo spreco è la profilazione di ogni singolo utente.
I dati sono la vera materia prima, come ci ricordava dettagliatamente ancora Shoshanna Zuboff, i programmi sono l’esca, l’occasione, per estrarre dati da ogni spettatore.
Netflix si trova oggi con il 75 % del suo catalogo completamente inerte, ossia senza alcun utente. Questo significa costi di gestione dei contenuti e , soprattutto errori marchiani nella focalizzazione degli utenti.
Qualche anno fa si discuteva sulla mutazione di tutti i service providers in content providers, e vedemmo come le piattaforme di smistamento diventavano inevitabilmente produttori di contenuti. Oggi ci pare di vedere come, con l’intelligenza artificiale, ogni soggetto della rete tenda a costituirsi come centro servizi complessivo, in cui il suo core business, sia quello editoriale o di logistica, diventa un pretesto per acchiappare utenti unici a cui poi vendere una gamma di servizi più vari.
Il modello nel mercato della comunicazione non è il palinsesto delle grandi catene televisive americane ma il catalogo delle piattaforme di e Commerce di Amazon.
Come abbiamo constatato nei bilanci delle grandi testate statunitensi, e oggi vediamo anche nelle pieghe dei rendiconti del Corriere della sera e di Repubblica, il valore aggiunto non è l’offerta di informazione , ma la commercializzazione di prodotti e servizi, dalle guide enogastronomiche ai corsi di recupero scolastico alle agenzie turistiche, alla formazione specializzata d’impresa, così come il Washington Post è sostenuto da centri di formazione per studenti ripetenti, o il New York Times da guide enogastronomiche e servizi al turismo. Il principio base che congiunge e unifica tutte queste funzioni è las padronanza degli algoritmi. La scelta cio è di essere autonomi e sovrani rispetto alle forme di intelligenza che si usano. IL 42 % dei ricavi del New York Times oggi sono investiti nello sviluppo di algoritmi propri. UN giornale o una tv sono innanzitutto i propri algoritmi.
Trasversale a tutte queste attività è la produzione video. Ancora la cronaca di Jill Abramson ci dice che ormai il 45 % della produzione delle redazioni dei grandi quotidiani è di natura audiovisiva. Un video che diventa contesto, accompagnamento, e sostituzione dell’offerta tradizionale, combinandosi con i palinsesti delle emittenti TV.
Da questa promiscuità stanno emergendo i nuovi format che parlano ai nuovi utenti: la docufiction si è ormai evoluta in serie di ricostruzione della memoria- il format la Squadra mi sembra uno dei prodotti più azzeccati sia come formula produttiva che come linguaggio di marketing televisivo. Lo stesso produzione come Ossi di Seppia, dell’Agenzia 42°parallelo, programmata su Rai3, ci indica quello spazio di mercato inedito in cui la TV recupera la memoria che non è contemplata dall’esperienza degli utenti. Per agganciare i millenials, sembra la strategia, bisogna proporgli programmi su eventi e storie che si sono realizzate appena prima della loro nascita o presa di coscienza. La TV copre i buchi. Ma lo deve fare con una versatilità e fluidità tali da permettere ad ogni utente di organizzare questa auto formazione del passato recente.
In questa scelta, Rai Play diventa il motore di un nuovo Non è mai troppo tardi, o meglio, Non è mai troppo lontano. Cosi come Discovery ci sta spiegando che la storia deve diventare attualità per trovare un proprio pubblico.
Mi rendo conto che lo scenario che suggerisco sia davvero troppo liquido, troppo instabile, troppo precario per sostenere imprese e sistemi televisivi come li abbiamo conosciuti. E qui veniamo al vero punto di frequenza dell’intera questione: vi pare che nei prossimi 5 anni si possa ancora giocare sul presepe della rai semplicemente spostando i pastori a seconda di dove butti la stella cometa? Io penso che siamo ,per la Rai ma anche per le sue consorelle , ad una svolta di formato: un’azienda tv è o magazzino o piasttaforma, ma non tutto e due.
La svolta che cambiò il mercato dei microchips negli anni 80, fu la separazione fra progettazione e produzione. La prima sempre più imprevedibile, la seconda sempre più specializzata. Taiwan deve a questa intuizione il suo primato.
Oggi credo che siamo ad un bivio anche per la tv: la separazione strutturale ed organica fra ideazione e sviluppo dei linguaggi, dalla realizzazione e distribuzione. Questo ci porta a pensare ad una nuova formula per il settore nazionale, e nel settore nazionale per il servizio pubblico.
Ma sicuramente tutto quello che abbiamo imparato a fare fino ad oggi non lo dovremmo più fare.
Michele Mezza